
Il Gioco delle Ombre
Il suo nome era Samuel, ma da quando erano arrivati lì, nel fango e nel fumo acre, nessuno lo chiamava più per nome.
Aveva otto anni ed era solo un numero, A-1894, cucito sulla casacca che gli penzolava addosso come un sacco. Ma i suoi occhi, due pozzi neri incavati in un volto troppo vecchio, ne avevano il doppio. Il suo unico gioco era il gioco delle ombre.
La sua memoria di prima era un album di immagini sbiadite: l’odore del challah della nonna il venerdì sera, la luce sul volto di suo padre mentre leggeva la Torah, la risata di sua sorella maggiore. Li aveva persi tutti durante la “selezione” sul binario. Ora era solo, un filo d’erba che cercava di sopravvivere in una landa di ghiaccio.
La forza bruta non era un’opzione per un bambino mingherlino.
La sua sopravvivenza divenne un’arte sottile, un gioco di ombre e silenzi. La sua prima lezione la imparò dal freddo. Un uomo più grande, un fabbro di Varsavia di nome Jakob, lo vide tremare in modo incontrollabile durante l’appello. Senza mai guardarlo, gli sussurrò in yiddish: “Il segreto non è non avere freddo. È non farlo vedere.”
Da allora, Samuel imparò a controllare ogni tremito, a rendere il suo corpo piccolo e immobile, un sasso in un fiume di dolore. Diventò un maestro nel rendersi invisibile. Conosceva gli angoli morti delle torri di guardia, i momenti in cui le SS cambiavano la turnazione. Sapeva come muoversi senza fare rumore, una piccola ombra che scivolava tra le baracche.
La sua arma più potente era la sua mente.
Per non impazzire, per non sentire la morsa della fame che gli rosicchiava le viscere, giocava un gioco. Ogni giorno si assegnava una missione. Un giorno era trovare un pezzo di corda più lungo di un dito. Un altro era contare quanti camion arrivavano ai forni. Un altro ancora era memorizzare il volto di un nuovo prigioniero, dargli un nome e una storia nella sua testa. Erano missioni assurde, ma gli davano una ragione per alzarsi dalla branda di legno marcio. Ma il gioco che gli piaceva di più era quello che faceva con le dita nella penombra del suo giaciglio: Il Gioco delle Ombre!
Un pomeriggio, la sua missione era “trovare qualcosa di verde”.
Cercò per ore, tra il fango e la cenere, finché, in una fessura vicino alla latrina, non vide spuntare un filo d’erba, tenero e testardo. Quello divenne il suo tesoro. Andava a controllarlo ogni giorno, a sussurrargli le storie che suo padre gli raccontava.
Quel filo d’erba era la vita, era la prova che esisteva ancora un mondo al di fuori di quel recinto di morte.
La sua fortuna, se così si può chiamare, arrivò da un’epidemia di tifo. Samuel si ammalò anche lui, ma la sua febbre fu meno alta di quella degli altri.
Quando le SS ordinarono di “sbarazzarsi dei malati”, due prigionieri del *Sonderkommando* che stavano trasportando i corpi lo trovarono in un angolo, febbricitante ma cosciente. Uno di loro, un uomo dagli occhi spenti, lo guardò.
Per un attimo, Samuel pensò che fosse la fine.
Invece, l’uomo gli sussurrò: “Fai il morto. Non respirare.”
Lo caricarono su un carretto di corpi, ma invece di portarlo verso i forni, lo scaricarono dietro la baracca degli infermieri, in un mucchio di altri che sarebbero stati sepolti in una fossa comune.
Fu lì che, ore dopo, fu trovato da un medico prigioniero polacco, che riconobbe in quel lieve respiro un miracolo da non sprecare. Lo nascose nella baracca degli “inabili”, falsificando i documenti.
Samuel sopravvisse. Non grazie alla forza, ma all’astuzia. Non grazie all’eroismo, ma alla disperata, silenziosa complicità di altri dannati che, in un gesto, scelsero di salvare una vita invece di distruggerla.
Quando i cancelli furono aperti dai soldati russi, Samuel era così leggero che un soldato lo sollevò senza sforzo.
Il bambino, che non piangeva più da anni, non urlò di gioia.
Si limitò a guardare il cielo, un grigio pulito, senza fumo. Poi, con una lentezza infinita, si diresse verso la latrina. Cercò nella fessura. Il filo d’erba non c’era più, calpestato dal passaggio della Storia.
Ma lui era sopravvissuto.
E nella sua tasca, teneva stretto un pezzo di carbone che aveva rubato.
Quella notte, nella baracca che era diventata un rifugio, sul retro di un modulo delle SS, disegnò per la prima volta dopo anni. Non disegnò il filo d’erba.
Disegnò una radice, profonda, nera e tenace, che affondava in una terra oscura, aggrappata alla vita con una forza che nessuno avrebbe mai più potuto spezzare.

Molto commovente