“L’uomo è produttore”, sentenzia qualcuno che ha l’orologio indietro, “e la donna è consumatrice”.
L’ottanta per cento di tutto quello che si vende lo compriamo noi donne. Non perchè siamo spendaccione, certamente, ma perchè tocca a noi provvedere, principalmente, ad acquistare quanto occorre per il vitto, l’arredamento della casa, il vestiario, i regali, i libri di scuola e altre cose ancora.
In realtà, oggi quasi tutte le donne producono, lavorando, ma certo siamo noi che compiamo l’atto materiale del comperare. E tanto basta perchè gli esperti di quella che è diventata quasi una scienza, la pubblicità, si rivolgano essenzialmente a lei, alla donna, sfruttando abilmente certe sue debolezze e anche certe sue insoddisfazioni.
La destinataria dei messaggi pubblicitari che ci raggiungono ad ogni momento dalle pagine dei giornali, dai teleschermi, dai microfoni della radio, dai manifesti, non è certo la donna fornita di spirito critico, la quale può utilizzare le informazioni che le pervengono per farne poi l’uso che crede. E’, invece, il tipo più sprovveduto, la massaia che non ha molti interessi e per la quale lo slogan “bianco più bianco del bianchissimo” può diventare un irresistibile comando.
La pubblicità ha perso ormai da tempo il semplice scopo informativo che forse una volta aveva. Oggi è pura invadenza: un dentifricio può valerne un altro, ma vince quello che è proposto con uno slogan più convincente. Un brandy è peggiore di un altro, forse è il peggiore di tutti, ma se riesce ad assestarci una battuta efficace, noi ci arrendiamo e lo compriamo.
Dovremmo usare la pubblicità come un servizio utile e non identificarci nei suoi protagonisti dove tutti appaiono belli, giovani, sexy e sempre di buonumore. Contro questo tipo di violenza c’è una sola difesa: l’intelligenza. Coltiviamola e utilizziamola.